Scrittore, poeta, militare e patriota italiano, una figura che ha segnato la letteratura italiana a cavallo tra l’800 e il 900, e che ha avuto anche un ruolo di rilievo nel corso della prima guerra mondiale. Nel 1924 Gabriele D’Annunzio viene omaggiato con il titolo nobiliare di “principe di Montenevoso“ dal Re Vittorio Emanuele III, a seguito della famosa “impresa di fiume”.
Il pensiero di D’Annunzio fu talmente determinante per l’Italia di quegli anni, da influenzare un intero periodo chiamato per l’appunto “dannunzianesimo”. Molte delle D’Annunzio poesie le abbiamo studiate tra i banchi di scuola, ma ora possiamo avvicinarci alle sue opere con una nuova consapevolezza. Ecco le 15 poesie di D’Annunzio più belle e famose:
Poesie di D’Annunzio
La sera fiesolana
Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta
su l’alta scala che s’annera
contro il fusto che s’inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.
Laudata sii pel tuo viso di perla,
o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l’acqua del cielo!
Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l’aura che si perde,
e su ‘l grano che non è biondo ancora
e non è verde,
e su ‘l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.
Laudata sii per le tue vesti aulenti,
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!
Io ti dirò verso quali reami
d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l’ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s’incùrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l’anima le possa amare
d’amor più forte.
Laudata sii per la tua pura morte,
o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare
le prime stelle!
L’aedo
Meco ragiona il veglio
d’una spezie di pomi.
E dice: “Nasce in arbore
di mezzana statura, e fior bianchetto.
La dolcezza del frutto
è mista con asprezza.
Non ricusa qualunque terra. I luoghi
allegri ama bensì,dolce temperie.
Dilettasi del mare.
Il vento e il gelo teme.
Innestar non si puote.
Piccola etade dura.
Serbansi i pomi in orci unti di pece.
Anco serbansi in cave
dell’oppio arbore; ovver tra la vinaccia
in pentole, assai bene e lungamente”.
Così ragiona il veglio; ed in sue lente
parole il cor si spazia
come in un canto aonio.
Risplende un’antichissima virtude,
come nel prisco aedo
che canta un fato illustre,
o Terra, nel tuo bianco testimonio.
Il soffio del suo petto
paterno è come la bontà dell’aria
che fa buona ogni cosa.
La vita fruttuosa
dell’arbore s’agguaglia
alle sorti magnifiche dei regni.
Ei parla, e tra due legni
tesse la chiara paglia
come l’aedo tende le sue corde,
create cò minugi degli agnelli,
tra i bracci della lira.
Vento asolando, spira
odor di meliloto il miel dall’ombra,
colato nei mondissimi vaselli
ove la man spremette i fiali pregni.
Ei ragiona e travaglia;
e il flavescente culmo non si spezza.
A quando a quando mira
come chi attenda segni.
Ode sciame che romba.
Ei parla di battaglia
che han l’api in loro ostelli
per signorie lor nuove.
Gli luce nella barba e ne’ capelli
alcun filo di paglia
che il suo parlar commuove.
Al sole oro non è che tanto luca.
Appesa alla sua bocca che s’immézza,
presso l’aroma della sua saggezza,
l’anima nostra è come la festuca.
Rimani
Rimani! Riposati accanto a me.
Non te ne andare.
Io ti veglierò. Io ti proteggerò.
Ti pentirai di tutto fuorché d’essere venuto a me, liberamente, fieramente.
Ti amo. Non ho nessun pensiero che non sia tuo;
non ho nel sangue nessun desiderio che non sia per te.
Lo sai. Non vedo nella mia vita altro compagno, non vedo altra gioia
Rimani.
Riposati. Non temere di nulla.
Dormi stanotte sul mio cuore…
Pastori d’Abruzzo
Settembre. Andiamo è tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzo i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare,
vanno verso l’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.
Han bevuto profondamente ai fonti alpestri
ché sapor d’acqua natia
rimanga nei cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d’avellano.
E vanno pel tratturo antico al piano
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
Oh voce di colui che primamente
conobbe il tremolar della marina!
Ora lungh’esso il litoral
cammina la greggia.
Senza mutamento è l’aria
e il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquìo, calpestìo, dolci rumori,
ah perché non son io coi miei pastori?
Lungo l’Affrico nella sera di giugno dopo la pioggia
Grazia del ciel, come soavemente
ti miri ne la terra abbeverata,
anima fatta bella dal suo pianto!
O in mille e mille specchi sorridente
grazia, che da la nuvola sei nata
come la voluttà nasce dal pianto,
musica nel mio canto
ora t’effondi, che non è fugace,
per me trasfigurata in alta pace
a chi l’ascolti.
Nascente Luna, in cielo esigua come
il sopracciglio de la giovinetta
e la midolla de la nova canna,
sì che il più lieve ramo ti nasconde
e l’occhio mio, se ti smarrisce, a pena
ti ritrova, pe ‘l sogno che l’appanna,
Luna, il rio che s’avvalla
senza parola erboso anche ti vide;
e per ogni fil d’erba ti sorride,
solo a te sola.
O nere e bianche rondini, tra notte
e alba, tra vespro e notte, o bianche e nere
ospiti lungo l’Affrico notturno!
Volan elle sì basso che la molle
erba sfioran coi petti, e dal piacere
il loro volo sembra fatto azzurro.
Sopra non ha sussurro
l’arbore grande, se ben trema sempre.
Non tesse il volo intorno a le mie tempie
fresche ghirlande?
E non promette ogni lor breve grido
un ben che forse il cuore ignora e forse
indovina se udendo ne trasale?
S’attardan quasi immemori del nido,
e sul margine dove son trascorse
par si prolunghi il fremito dell’ale.
Tutta la terra pare
argilla offerta all’opera d’amore,
un nunzio il grido, e il vespero che muore
un’alba certa.
Il vento scrive
Su la docile sabbia il vento scrive
con le penne dell’ala; e in sua favella
parlano i segni per le bianche rive.
Ma, quando il sol declina, d’ogni nota
ombra lene si crea, d’ogni ondicella,
quasi di ciglia su soave gota.
E par che nell’immenso arido viso
della pioggia s’immilli il tuo sorriso.
Stringiti a me
Stringiti a me,
abbandonati a me,
sicura.
Io non ti mancherò
e tu non mi mancherai.
Troveremo,
troveremo la verità segreta
su cui il nostro amore
potrà riposare per sempre,
immutabile.
Non ti chiudere a me,
non soffrire sola,
non nascondermi il tuo tormento!
Parlami,
quando il cuore
ti si gonfia di pena.
Lasciami sperare
che io potrei consolarti.
Nulla sia taciuto fra noi
e nulla sia celato.
Oso ricordarti un patto
che tu medesima hai posto.
Parlami
e ti risponderò
sempre senza mentire.
Lascia che io ti aiuti,
poiché da te
mi viene tanto bene!
Voglio un amore doloroso
Voglio un amore doloroso, lento,
che lento sia come una lenta morte,
e senza fine (voglio che più forte
sie della morte) e senza mutamento.
Voglio che senza tregua in un tormento
occulto sien le nostre anime assorte;
e un mare sia presso a le nostre porte,
solo, che pianga in un silenzio intento.
Voglio che sia la torre alta granito,
ed alta sia così che nel sereno
sembri attingere il grande astro polare.
Voglio un letto di porpora, e trovare
in quell’ombra giacendo su quel seno,
come in fondo a un sepolcro, l’Infinito.
Beatitudine
“Color di perla quasi informa, quale
conviene a donna aver, non fuor misura”.
Non è, Dante, tua donna che in figura
della rorida Sera a noi discende?
Non è non è dal ciel Betarice
discesa in terra a noi
bagnata il viso di pianto d’amore?
Ella col lacrimar degli occhi suoi
tocca tutte le spiche
a una a una e cangia lor colore.
Stanno come persone
inginocchiate elle dinanzi a lei,
a capo chino, umíli; e par si bei
ciascuna del martiro che l’attende.
Vince il silenzio i movimenti umani.
Nell’aerea chiostra
dei poggi l’Arno pallido s’inciela.
Ascosa la Città di sé non mostra
se non due steli alzati,
torre d’imperio e torre di preghiera,
a noi dolce com’era
al cittadin suo prima dell’esiglio
quand’ei tenendo nella mano un giglio
chinava il viso tra le rosse bende.
Color di perla per ovunque spazia
e il ciel tanto è vicino
che ogni pensier vi nasce come un’ala.
La terra sciolta s’è nell’infinito
sorriso che la sazia,
e da noi lentamente s’allontana
mentre l’Angelo chiama
e dice:”Sire, nel mondo si vede
meraviglia nell’atto, che procede
da un’anima, che fin quassù risplende”.
O falce di luna calante
O falce di luna calante
che brilli su l’acque deserte,
o falce d’argento, qual mèsse di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!
Aneliti brevi di foglie,
sospiri di fiori dal bosco
esalano al mare: non canto non grido
non suono pe ‘l vasto silenzio va.
Oppresso d’amor, di piacere,
il popol de’ vivi s’addorme…
O falce calante, qual mèsse di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!
Nella belletta
Nella belletta i giunchi hanno l’odore
delle persiche mézze e delle rose
passe, del miele guasto e della morte.
Or tutta la palude è come un fiore
lutulento che il sol d’agosto cuoce,
con non so che dolcigna afa di morte.
Ammutisce la rana, se m’appresso.
Le bolle d’aria salgono in silenzio.
Un ricordo
Io non sapea qual fosse il mio malore
né dove andassi. Era uno strano giorno.
Oh, il giorno tanto pallido era in torno,
pallido tanto che facea stupore.
Non mi sovviene che di uno stupore
immenso che quella pianura in torno
mi facea, cosí pallida in quel giorno,
e muta, e ignota come il mio malore.
Non mi sovviene che d’un infinito
silenzio, dove un palpitare solo,
debole, oh tanto debole, si udiva.
Poi, veramente, nulla piú si udiva.
D’altro non mi sovviene. Eravi un solo
essere, un solo; e il resto era infinito.
Pace
Pace, pace! La bella Simonetta
adorna del fugace emerocàllide
vagola senza scorta per le pallide
ripe cantando nova ballatetta.
Le colline s’incurvano leggiere
come le onde del vento nella sabbia
del mare e non fanno ombra, quasi d’aria.
L’Arno favella con la bianca ghiaia,
recando alle Nereidi tirrene
il vel che vi bagnò forse la Grazia,
forse il velo onde fascia
la Grazia questa terra di Toscana
escita della casalinga lana
che fu l’arte sua prima.
Pace, pace! Richiama la tua rima
nel cor tuo come l’ape nel tuo bugno.
Odi tenzon che in su l’estremo giugno
ha la cicala con la lodoletta!
Canta la gioia
Canta la gioia! Io voglio cingerti
di tutti i fiori perché tu celebri
la gioia la gioia la gioia,
questa magnifica donatrice!
Canta l’immensa gioia di vivere,
d’esser forte, d’essere giovine,
di mordere i frutti terrestri
con saldi e bianchi denti voraci,
di por le mani audaci e cupide
su ogni dolce cosa tangibile,
di tendere l’arco su ogni
preda novella che il desìo miri,
e di ascoltare tutte le musiche,
e di guardare con occhi fiammei
il volto divino del mondo
come l’amante guarda l’amata,
e di adorare ogni fuggevole
forma, ogni segno vago, ogni immagine
vanente, ogni grazia caduca,
ogni apparenza ne l’ora breve.
Canta la gioia! Lungi da l’anima
nostro il dolore, veste cinerea.
Furit aestus
Un falco stride nel color di perla:
tutto il cielo si squarcia come un velo.
O brivido su i mari taciturni,
o soffio, indizio del súbito nembo!
O sangue mio come i mari d’estate!
La forza annoda tutte le radici:
sotto la terra sta, nascosta e immensa.
La pietra brilla più d’ogni altra inerzia.
La luce copre abissi di silenzio,
simile ad occhio immobile che celi
moltitudini folli di desiri.
L’Ignoto viene a me, l’Ignoto attendo!
Quel che mi fu da presso, ecco, è lontano.
Quel che vivo mi parve, ecco, ora è spento.
T’amo, o tagliente pietra che su l’erta
brilli pronta a ferire il nudo piede.
Mia dira sete, tu mi sei più cara
che tutte le dolci acque dei ruscelli.
Abita nella mia selvaggia pace
la febbre come dentro le paludi.
Pieno di grida è il riposato petto.
L’ora è giunta, o mia Mèsse, l’ora è giunta!
Terribile nel cuore del meriggio
pesa, o Mèsse, la tua maturità.
L’opere e i giorni
O sposo della Terra venerando,
è bello a sera noverare l’opre
della dimane e misurar nel cuore
meditabondo la durabil forza.
Veglio, la tua parola su me piove
candida come il fior del melo allora
che già comincia ad allegare il frutto.
Parlami, e dimmi quali sieno l’opre.
“Di questo mese m’apparecchio l’aia.
La mondo e sarchiellata lievemente
la concio con la pula e con la morchia
sicché difenda la biada da topi
e da formiche e d’altra gente infesta.
E poi la piano con la pietra tonda,
o con legno; o pur suvvi spargo l’acqua
e suvvi metto le mie bestie, e bene
cò piedi lor la faccio rassodare;
e poi si secca al sole” il veglio dice.
E sta su la sua soglia rinnovata
di quella pietra ch’è detta serena
(nasce del Monte Céceri in gran copia)
schietta pietra, pendente nell’azzurro
alquanto, di color d’acqua piovana
ove cotta la foglia sia del glastro.
E dietro la sua faccia, che la grande
etade arò con invisibil vomere
sì che raggia di curvi e retti solchi
qual iugero già pronto alla sementa,
sale su per lo stipite di pietra
il bianco gelsomin grato alle pecchie,
eguale di candore al crin canuto.
“Di questo mese nel solstizio, quando
il Sol non puote più salire, semino
le brasche; le quà poi di mezzo agosto
trapiantar mi bisogna in luogo irriguo.
E la bietola e l’appio e il coriandro
e la lattuga semino, ed innacquo.
Colgo la veccia, e sego per pastura
il fien greco. La fava anzi la luce
vello, scemante la luna; la fava,
anzi che compia lo scemar la luna,
batto; e refrigerata la ripongo.
Di questo mese inocchio il pesco, impiastro
il fico, vòto l’arnia, il condottiero
eleggo nel gomitolo dell’api.
E prossima si fa la mietitura
dell’orzo, la qual compiere mi giova
anzi che mi comincino a cascare
le spighe, imperocché non son vestite
sue granella di foglie, come il grano.
Da giovine sei moggia il dì potei
segarne!” sorridendo il veglio dice.
Ancora armata è la gengiva, salda
nel suo sorriso e nella sua favella.
E non pur gli vacillano i ginocchi,
se ben la falce nell’oprare gli abbia
a simiglianza sel suo ferro istesso
curve le gambe. E sopra il santo petto
il lin rude, che l’indaco fè quasi
celeste, crea misteriosamente
l’imagine di Pan duce degli astri,
cui nel torace si rispecchia il Cielo.
La spica
Laudata sia la spica nel meriggio!
Ella s’inclina al Sole che la cuoce,
verso la terra onde umida erba nacque;
s’inclina e più s’inclinerà domane
verso la terra ove sarà colcata
col gioglio ch’è il malvagio suo fratello,
con la vena selvaggia
col cíano cilestro
col papavero ardente
cui l’uom non seminò, in un mannello.
E’ di tal purità che pare immune,
sol nata perché l’occhio uman la miri;
di sì bella ordinanza che par forte.
Le sue granella sono ripartite
con la bella ordinanza che c’insegna
il velo della nostra madre Vesta.
Tre son per banda alterne;
minore è il granel medio;
ciascuno ha la sua pula;
d’una squammetta nasce la sua resta.
Matura anco non è. Verde è la resta
dove ha il suo nascimento dalla squamma,
però tutt’oro ha la pungente cima.
E verdi lembi ha la già secca spoglia
ove il granello a poco a poco indura
ed assume il color della focaia.
E verdeggia il fistuco
di pallido verdore
ma la stípula è bionda.
S’odon le bestie rassodare l’aia.
Dice il veglio: “Nè luoghi maremmani
già gli uomini cominciano segare.
E in alcuna contrada hanno abbicato.
Tu non comincerai, se tu non veda
tutto il popolo eguale della mèsse
egualmente risplender di rossore”.
E la spica s’arrossa.
Brilla il fil della falce,
negreggia il rimanente,
di stoppia incenerita è il suo colore.
E prima la sudata mano e poi
il ferro sentirànel suo fistuco
la spica; e in lei saran le sue granella,
in lei saràla candida farina
che la pasta farà molto tegnente
e farà pane che molto ricresce.
Ma la vena selvaggia
ma il cíano cilestro
ma il papavero ardente
con lei cadranno, ahi, vani su le secce.
E la vena pilosa, or quasi bianca,
è tutta lume e levità di grazia;
e il cíano rassembra santamente
gli occhi cesii di Palla madre nostra;
e il papavero è come il giovenile
sangue che per ispada spiccia forte;
e tutti sono belli
belli sono e felici
e nel giorno innocenti;
e l’uom non si dorrà di loro sorte.
E saranno calpesti e della dolce
suora, che tanto amarono vicina,
che sonar per le reste quasi esigua
cítara al vento udirono, disgiunti;
e sparsi moriran senza compianto
perché non danno il pane che nutrica.
Ma la vena selvaggia
e il cíano cilestro
e il papavero ardente
laudati sien da noi come la spica!
L’ulivo
Laudato sia l’ulivo nel mattino!
Una ghirlanda semplice, una bianca
tunica, una preghiera armoniosa
a noi son festa.
Chiaro leggero è l’arbore nell’aria
E perché l’imo cor la sua bellezza
ci tocchi, tu non sai, noi non sappiamo,
non sa l’ulivo.
Esili foglie, magri rami, cavo
tronco, distorte barbe, piccol frutto,
ecco, e un nume ineffabile risplende
nel suo pallore!
O sorella, comandano gli Ellèni
quando piantar vuolsi l’ulivo, o côrre,
che ‘l facciano i fanciulli della terra
vergini e mondi,
imperocché la castitate sia
prelata di quell’arbore palladio
e assai gli noccia mano impura e tristo
alito il perda.
Tu nel tuo sonno hai valicato l’acque
lustrali, inceduto hai su l’asfodelo
senza piegarlo; e degna al casto ulivo
ora t’appressi.
Biancovestita come la Vittoria,
alto raccolta intorno al capo il crine,
premendo con piede àlacre la gleba,
a lui t’appressi.
L’aura move la tunica fluente
che numerosa ferve, come schiume
su la marina cui l’ulivo arride
senza vederla.
Nuda le braccia come la Vittoria,
sul flessibile sandalo ti levi
a giugnere il men folto ramoscello
per la ghirlanda.
Tenue serto a noi,di poca fronda,
è bastevole: tal che d’alcun peso
non gravi i bei pensieri mattutini
e d’alcuna ombra.
O dolce Luce, gioventù dell’aria,
giustizia incorruttibile, divina
nudità delle cose, o Animatrice,
in noi discendi!
Tocca l’anima nostra come tocchi
il casto ulivo in tutte le sue foglie;
e non sia parte in lei che tu non veda,
Onniveggente!
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