Poesie di Carducci: le 15 più belle e famose

poesie di carducci

Uno degli scrittori simbolo del XIX secolo, primo italiano ad aver vinto il Premio Nobel per la letteratura nel 1906. Giosuè Carducci è un autore che abbiamo tutti studiato tra i banchi di scuola, e che ci ha lasciato opere che affrontano temi come la religione, la patria, la libertà e l’eroismo.

Poesie che è sempre bello rileggere per fare un viaggio a ritroso nella memoria, fino ai giorni dei nostri studi scolastici. Opere a cui oggi possiamo avvicinarci con una nuova consapevolezza. Ecco 15 poesie di Carducci:

Poesie di Carducci

Fantasia

Tu parli; e, de la voce a la molle aura
lenta cedendo, si abbandona l’anima
del tuo parlar su l’onde carezzevoli,
e a strane plaghe naviga.
Naviga in un tepor di sole occiduo
ridente a le cerulee solitudini:
tra cielo e mar candidi augelli volano,
isole verdi passano,
e i templi su le cime ardui lampeggiano
di candor pario ne l’occaso roseo,
ed i cipressi de la riva fremono,
e i mirti densi odorano.
Erra lungi l’odor su le salse aure
e si mesce al cantar lento de’ nauti,
mentre una nave in vista al porto ammàina
le rosse vele placide.
Veggo fanciulle scender da l’acropoli
in ordin lungo; ed han bei pepli candidi,
serti hanno al capo, in man rami di lauro,
tendon le braccia e cantano.
Piantata l’asta in su l’arena patria,
a terra salta un uom ne l’armi splendido:
è forse Alceo da le battaglie reduce
a le vergini lesbie?

A Satana

A te, de l’essere
Principio immenso,
Materia e spirito,
Ragione e senso;
Mentre ne’ calici
Il vin scintilla
Sí come l’anima
Ne la pupilla;
Mentre sorridono
La terra e il sole
E si ricambiano
D’amor parole,
E corre un fremito
D’imene arcano
Da’ monti e palpita
Fecondo il piano;
A te disfrenasi
Il verso ardito,
Te invoco, o Satana,
Re del convito.
Via l’aspersorio
Prete, e il tuo metro!
No, prete, Satana
Non torna in dietro!
Vedi: la ruggine
Rode a Michele
Il brando mistico,
Ed il fedele
Spennato arcangelo
Cade nel vano.
Ghiacciato è il fulmine
A Geova in mano.
Meteore pallide,
Pianeti spenti,
Piovono gli angeli
Da i firmamenti.
Ne la materia
Che mai non dorme,
Re de i fenomeni,
Re de le forme,
Sol vive Satana.
Ei tien l’impero
Nel lampo tremulo
D’un occhio nero,
O ver che languido
Sfugga e resista,
Od acre ed umido
Pròvochi, insista.
Brilla de’ grappoli
Nel lieto sangue,
Per cui la rapida
Gioia non langue,
Che la fuggevole
Vita ristora,
Che il dolor proroga
Che amor ne incora.
Tu spiri, o Satana,
Nel verso mio,
Se dal sen rompemi
Sfidando il dio
De’ rei pontefici,
De’ re crüenti:
E come fulmine
Scuoti le menti.
A te, Agramainio,
Adone, Astarte,
E marmi vissero
E tele e carte,
Quando le ioniche
Aure serene
Beò la Venere
Anadiomene.
A te del Libano
Fremean le piante,
De l’alma Cipride
Risorto amante:
A te ferveano
Le danze e i cori,
A te i virginei
Candidi amori,
Tra le odorifere
Palme d’Idume,
Dove biancheggiano
Le ciprie spume.
Che val se barbaro
Il nazareno
Furor de l’agapi
Dal rito osceno
Con sacra fiaccola
I templi t’arse
E i segni argolici
A terra sparse?
Te accolse profugo
Tra gli dèi lari
La plebe memore
Ne i casolari.
Quindi un femineo
Sen palpitante
Empiendo, fervido
Nume ed amante,
La strega pallida
D’eterna cura
Volgi a soccorrere
L’egra natura.
Tu a l’occhio immobile
De l’alchimista,
Tu de l’indocile
Mago a la vista,
Del chiostro torpido
Oltre i cancelli,
Riveli i fulgidi
cieli novelli.
A la Tebaide
Te ne le cose
Fuggendo, il monaco
Triste s’ascose.
O dal tuo tramite
Alma divisa,
Benigno è Satana;
Ecco Eloisa.
In van ti maceri
Ne l’aspro sacco:
Il verso ei mormora
Di Maro e Flacco
Tra la davidica
Nenia ed il pianto;
E, forme delfiche,
A te da canto,
Rosee ne l’orrida
Compagnia nera,
Mena Licoride,
Mena Glicera.
Ma d’altre imagini
D’età più bella
Talor si popola
L’insonne cella.
Ei, da le pagine
Di Livio, ardenti
Tribuni, consoli,
Turbe frementi
Sveglia; e fantastico
D’italo orgoglio
Te spinge, o monaco,
Su ‘l Campidoglio
E voi, che il rabido
Rogo non strusse,
Voci fatidiche,
Wicleff ed Husse,
A l’aura il vigile
grido mandate:
S’innova il secolo
Piena è l’etade.
E già già tremano
Mitre e corone:
Dal chiostro brontola
La ribellione,
E pugna e prèdica
Sotto la stola
Di fra’ Girolamo
Savonarola.
Gittò la tonaca
Martin Lutero:
Gitta i tuoi vincoli,
Uman pensiero,
E splendi e folgora
Di fiamme cinto;
Materia, inalzati:
Satana ha vinto.
Un bello e orribile
Mostro si sferra,
Corre gli oceani,
Corre la terra:
Corusco e fumido
Come i vulcani,
I monti supera,
Divora i piani;
Sorvola i baratri;
Poi si nasconde
Per antri incogniti,
Per vie profonde;
Ed esce; e indomito
Di lido in lido
Come di turbine
Manda il suo grido,
Come di turbine
L’alito spande:
Ei passa, o popoli,
Satana il grande.
Passa benefico
Di loco in loco
Su l’infrenabile
Carro del foco.
Salute, o Satana,
O ribellione,
O forza vindice
De la ragione!
Sacri a te salgano
Gl’incensi e i vóti!
Hai vinto il Geova
De i sacerdoti.

Davanti a San Guido

I cipressi che a Bólgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,
Quasi in corsa giganti giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guardar.
Mi riconobbero, e— Ben torni omai —
Bisbigliaron vèr’ me co ‘l capo chino —
Perché non scendi ? Perché non ristai ?
Fresca è la sera e a te noto il cammino.
Oh sièditi a le nostre ombre odorate
Ove soffia dal mare il maestrale:
Ira non ti serbiam de le sassate
Tue d’una volta: oh non facean già male!
Nidi portiamo ancor di rusignoli:
Deh perché fuggi rapido cosí ?
Le passere la sera intreccian voli
A noi d’intorno ancora. Oh resta qui! —
— Bei cipressetti, cipressetti miei,
Fedeli amici d’un tempo migliore,
Oh di che cuor con voi mi resterei—
Guardando lor rispondeva — oh di che cuore !
Ma, cipressetti miei, lasciatem’ire:
Or non è piú quel tempo e quell’età.
Se voi sapeste!… via, non fo per dire,
Ma oggi sono una celebrità.
E so legger di greco e di latino,
E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtú:
Non son piú, cipressetti, un birichino,
E sassi in specie non ne tiro piú.
E massime a le piante. — Un mormorio
Pe’ dubitanti vertici ondeggiò
E il dí cadente con un ghigno pio
Tra i verdi cupi roseo brillò.
Intesi allora che i cipressi e il sole
Una gentil pietade avean di me,
E presto il mormorio si fe’ parole:
— Ben lo sappiamo: un pover uom tu se’.
Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse
Che rapisce de gli uomini i sospir,
Come dentro al tuo petto eterne risse
Ardon che tu né sai né puoi lenir.
A le querce ed a noi qui puoi contare
L’umana tua tristezza e il vostro duol.
Vedi come pacato e azzurro è il mare,
Come ridente a lui discende il sol!
E come questo occaso è pien di voli,
Com’è allegro de’ passeri il garrire!
A notte canteranno i rusignoli:
Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire;
I rei fantasmi che da’ fondi neri
De i cuor vostri battuti dal pensier
Guizzan come da i vostri cimiteri
Putride fiamme innanzi al passegger.
Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,
Che de le grandi querce a l’ombra stan
Ammusando i cavalli e intorno intorno
Tutto è silenzio ne l’ardente pian,
Ti canteremo noi cipressi i cori
Che vanno eterni fra la terra e il cielo:
Da quegli olmi le ninfe usciran fuori
Te ventilando co ‘l lor bianco velo;
E Pan l’eterno che su l’erme alture
A quell’ora e ne i pian solingo va
Il dissidio, o mortal, de le tue cure
Ne la diva armonia sommergerà. —
Ed io—Lontano, oltre Apennin, m’aspetta
La Tittí — rispondea; — lasciatem’ire.
È la Tittí come una passeretta,
Ma non ha penne per il suo vestire.
E mangia altro che bacche di cipresso;
Né io sono per anche un manzoniano
Che tiri quattro paghe per il lesso.
Addio, cipressi! addio, dolce mio piano! —
— Che vuoi che diciam dunque al cimitero
Dove la nonna tua sepolta sta? —
E fuggíano, e pareano un corteo nero
Che brontolando in fretta in fretta va.
Di cima al poggio allor, dal cimitero,
Giú de’ cipressi per la verde via,
Alta, solenne, vestita di nero
Parvemi riveder nonna Lucia:
La signora Lucia, da la cui bocca,
Tra l’ondeggiar de i candidi capelli,
La favella toscana, ch’è sí sciocca
Nel manzonismo de gli stenterelli,
Canora discendea, co ‘l mesto accento
De la Versilia che nel cuor mi sta,
Come da un sirventese del trecento,
Piena di forza e di soavità.
O nonna, o nonna! deh com’era bella
Quand’ero bimbo! ditemela ancor,
Ditela a quest’uom savio la novella
Di lei che cerca il suo perduto amor!
— Sette paia di scarpe ho consumate
Di tutto ferro per te ritrovare:
Sette verghe di ferro ho logorate
Per appoggiarmi nel fatale andare:
Sette fiasche di lacrime ho colmate,
Sette lunghi anni, di lacrime amare:
Tu dormi a le mie grida disperate,
E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare.
— Deh come bella, o nonna, e come vera
È la novella ancor! Proprio cosí.
E quello che cercai mattina e sera
Tanti e tanti anni in vano, è forse qui,
Sotto questi cipressi, ove non spero,
Ove non penso di posarmi piú:
Forse, nonna, è nel vostro cimitero
Tra quegli altri cipressi ermo là su.
Ansimando fuggía la vaporiera
Mentr’io cosí piangeva entro il mio cuore;
E di polledri una leggiadra schiera
Annitrendo correa lieta al rumore.
Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
Rosso e turchino, non si scomodò:
Tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo
E a brucar serio e lento seguitò.

San Martino

La nebbia a gl’irti colli
Piovigginando sale,
E sotto il maestrale
Urla e biancheggia il mar;
Ma per le vie del borgo
Dal ribollir de’ tini
Va l’aspro odor de i vini
L’anime a rallegrar.
Gira su’ ceppi accesi
Lo spiedo scoppiettando:
Sta il cacciator fischiando
Su l’uscio a rimirar
Tra le rossastre nubi
Stormi d’uccelli neri,
Com’esuli pensieri,
Nel vespero migrar.

Maggiolata

Maggio risveglia i nidi,
Maggio risveglia i cuori;
Porta le ortiche e i fiori,
I serpi e l’usignol.
Schiamazzano i fanciulli
In terra, e in ciel li augelli:
Le donne han ne i capelli
Rose, ne gli occhi il sol.
Tra colli prati e monti
Di fior tutto è una trama:
Canta germoglia ed ama
L’acqua la terra il ciel.
E a me germoglia in cuore
Di spine un bel boschetto;
Tre vipere ho nel petto
E un gufo entro il cervel.

Pianto antico

L’albero a cui tendevi
La pargoletta mano,
Il verde melograno
Da’ bei vermigli fior,
Nel muto orto solingo
Rinverdí tutto or ora
E giugno lo ristora
Di luce e di calor.
Tu fior de la mia pianta
Percossa e inaridita,
Tu de l’inutil vita
Estremo unico fior,
Sei ne la terra fredda,
Sei ne la terra negra;
Né il sol piú ti rallegra
Né ti risveglia amor.

Davanti alle terme di Caracalla

Corron tra ‘l Celio fosche e l’Aventino
le nubi: il vento dal pian tristo move
umido: in fondo stanno i monti albani
bianchi di nevi.
A le cineree trecce alzato il velo
verde, nel libro una britanna cerca
queste minacce di romane mura
al cielo e al tempo.
Continui, densi, neri, crocidanti
versansi i corvi come fluttuando
contro i due muri ch’a più ardua sfida
levansi enormi.
‘Vecchi giganti’ par che insista irato
l’augure stormo ‘a che tentate il cielo?’
Grave per l’aure vien da Laterano
suon di campane.
Ed un ciociaro, nel mantello avvolto,
grave fischiando tra la folta barba,
passa e non guarda. Febbre, io qui t’invoco,
nume presente.
Se ti fur cari i grandi occhi piangenti
e de le madri le protese braccia
te deprecanti, o dea, da ‘l reclinato
capo de i figli:
se ti fu cara su ‘l Palazio eccelso
l’ara vetusta (ancor lambiva il Tebro
l’evandrio colle, e veleggiando a sera
tra ‘l Campidoglio
e l’Aventino il reduce quirite
guardava in alto la città quadrata
dal sole arrisa, e mormorava un lento
saturnio carme);
febbre, m’ascolta. Gli uomini novelli
quinci respingi e lor picciole cose:
religïoso è questo orror: la dea
Roma qui dorme.
Poggiata il capo al Palatino augusto,
tra ‘l Celio aperte e l’Aventin le braccia,
per la Capena i forti omeri stende
a l’Appia via.

Il bove

T’amo, o pio bove; e mite un sentimento
Di vigore e di pace al cor m’infondi,
O che solenne come un monumento
Tu guardi i campi liberi e fecondi,
O che al giogo inchinandoti contento
L’agil opra de l’uom grave secondi:
Ei t’esorta e ti punge, e tu co ’l lento
Giro de’ pazïenti occhi rispondi.
Da la larga narice umida e nera
Fuma il tuo spirto, e come un inno lieto
Il mugghio nel sereno aer si perde;
E del grave occhio glauco entro l’austera
Dolcezza si rispecchia ampïo e quïeto
Il divino del pian silenzio verde.
Passa la nave mia
Passa la nave mia con vele nere,
Con vele nere pe ‘l selvaggio mare.
Ho in petto una ferita di dolore,
Tu ti diverti a farla sanguinare.
È, come il vento, perfido il tuo core,
E sempre qua e là presto a voltare.
Passa la nave mia con vele nere,
Con vele nere pe ‘l selvaggio mare.

Giuseppe Mazzini

Qual da gli aridi scogli erma su ‘l mare
Genova sta, marmoreo gigante,
Tal, surto in bassi dí, su ‘l fluttuante
Secolo, ei grande, austero, immoto appare.
Da quelli scogli, onde Colombo infante
Nuovi pe ‘l mar vedea mondi spuntare,
Egli vide nel ciel crepuscolare
Co ‘l cuor di Gracco ed il pensier di Dante
La terza Italia; e con le luci fise
A lei trasse per mezzo un cimitero,
E un popol morto dietro a lui si mise.
Esule antico, al ciel mite e severo
Leva ora il volto che giammai non rise,
—Tu sol—pensando—o ideal, sei vero.

Sole d’inverno

Nel solitario verno de l’anima
spunta la dolce imagine,
e tócche frangonsi tosto le nuvole
de la tristezza e sfumano.
Già di cerulea gioia rinnovasi
ogni pensiero: fremere
sentomi d’intima vita gli spiriti:
il gelo inerte fendesi.
Già de’ fantasimi dal mobil vertice
spiccian gli affetti memori,
scendon con rivoli freschi di lacrime
giú per l’ombra del tedio.
Scendon con murmuri che a gli antri chiamano
echi d’amor superstiti
e con letizia d’acque che a’ margini
sonni di fiori svegliano.
Scendono, e in limpido fiume dilagano,
ove le rive e gli alberi
e i colli e il tremulo riso de l’aere
specchiasi vasto e placido.
Tu su la nubila cima de l’essere,
tu sali, o dolce imagine;
e sotto il candido raggio devolvere
miri il fiume de l’anima.

Ad Annie

Batto a la chiusa imposta con un ramicello di fiori
glauchi ed azzurri, come i tuoi occhi, o Annie
Vedi: il sole co ‘I riso d’un tremulo raggio ha baciato
la nube, e ha detto – Nuvola bianca, t’apri.
Senti: il vento de l’alpe con fresco susurro saluta
la vela, e dice – Candida vela, vai.
Mira: I’augel discende da l’umido cielo su ‘l pèsco
in fiore, e trilla Vermiglia pianta, odora.
Scende da’ miei pensieri l’eterna dea poesia
su ‘I cuore, e grida – O vecchio cuore, batti.
E docile il cuore ne’ tuoi grandi occhi di fata
s’affisa, e chiama – Dolce fanciulla, canta.

In riva al mare

Tirreno, anche il mio petto è un mar profondo,
E di tempeste, o grande, a te non cede:
L’anima mia rugge ne’ flutti, e a tondo
Suoi brevi lidi e il picciol cielo fiede.
Tra le sucide schiume anche dal fondo
Stride la rena: e qua e là si vede
Qualche cetaceo stupido ed immondo
Boccheggiar ritto dietro immonde prede.
La ragion de le sue vedette algenti
Contempla e addita e conta ad una ad una
Onde belve ed arene invan furenti:
Come su questa solitaria duna
L’ire tue negre e gli autunnali venti
Inutil lampa illumina la luna.

Tedio invernale

Ma ci fu dunque un giorno
Su questa terra il sole?
Ci fur rose e vïole,
Luce, sorriso, ardor?
Ma ci fu dunque un giorno
La dolce giovinezza,
La gloria e la bellezza,
Fede, virtude, amor?
Ciò forse avvenne a i tempi
D’Omero e di Valmichi:
Ma quei son tempi antichi,
Il sole or non è piú.
E questa ov’io m’avvolgo
Nebbia di verno immondo
È il cenere d’un mondo
Che forse un giorno fu.

Carnevale

(Voce dai palazzi) E tu se d’echeggianti
Valli o borea, dal grembo, o errando in selva
Di pin canora, o stretto in chiostri orrendi,
Voce d`umani pianti
E sibilo di tibie e de la belva
Ferita il rugghio in mille suoni rendi,
Borea mi piaci. E te, solingo verno,
Là su quell’alpe volentieri io scerno.
Una caligin bianca
Empie l’aer dorrnente, e si confonde
Co ‘l pìan nevato a l’orizzonte estremo.
Tenue rosseggia e stanca
Del sol la ruota. e tra i vapor s’asconde,
Com’ occhio uman di sue palpèbre scemo.
E non augel, non aura in tra le piante,
Non canto di fanciulla o viandante;
Ma il cigolar de’ rami
Sotto il peso ineguale affaticati
E del gel che si fende il suono arguto.
Canti Arcadia le richiami
Zefiro e sua dolce famiglia a i prati
Me questo di natura altiero e muto
Orror più giova. Deh risveglia, Eurilla,
Nel sopito carbon lieta favilla;
Ed in me la serena
Faccia converti e ‘l lampeggiar del riso
Che primavera ove si volga adduce.
A la sonante scena
Poi ne attendono i palchi, ove dal viso
De le accolte bellezze ardore e luce
E da le chiome e da gl’inserti fiori
Spira l’april che rinnovella odori.
(Voce dai tuguri ) Oh se co ‘l vivo sangue
Del mio cor ristorare io vi potessi,
Gelide membra del figliuolo mie!
Ma inerte il cor mi langue,
E irrigiditi cadono gli amplessi,
E sordo l’uomo ed è tropp’alto Iddio.
O poverello mio, la lacrimosa
Gota a la gota di tua madre posa.
Non de la madre al seno
Il tuo fratel posò: lenta, su ‘l varco
Presse gli estremi aliti suoi la neve.
Da l’opra dura, pieno
Il dì, seguiva sotto iniquo carco
I crudeli signor co ‘l passo breve;
E co’ l’uom congiurava a fargli guerra
L’aere implacato e la difficil terra.
Il nevischio battea
Per i laceri panni il faticoso;
E cadde, e sanguinando in van risorse.
La fame ahi gli emungea
L’ultime forze, e al fin su ‘l doloroso
Passo lo vinse; e pia la morte accorse:
Poi cadavero informe e dissepolto
Lo ritornar sotto il materno volto.
Ahimè, con miglior legge
Ripara a schermo da la gelid’aura
Aquila in rupe e belva antica in lustre,
Ed un covil protegge
Tepido i sonni ed il vigor restaura
A i can satolli entro il palagio illustre
Qui presso, dove de l’amor più forte,
Figlio de l’uom, te mena il gelo a morte.
(Voce dalle sale) Mescete, or via mescete
La vendemmia che il Ren vecchia conserva
Di sue cento castella incoronato.
Gorgogli con le liete
Spume a lo sguardo e giù nel sen ci ferva
Quel che il sol ne’ tuoi colli ha maturato
Cui ben Giovanna a l’Anglo un dì contese,
di vini e d’eroi Francia cortese.
Poi ne rapisca in giro
La turbinosa danza. Oh di pompose
E bionde e nere chiome ondeggiamenti,
Oh infocato respiro
Che al tuo si mesce, oh disvelate rose,
Oh accorti a fulminare occhi fuggenti;
Mentre per mille suoni a tempra insieme
L’acuta voluttà sospira e geme!
Dolce sfiorar co ‘l labro
Le accese guance, e stringer mano a mano
E del seno su ‘l sen le vive nevi,
E di sua sorte fabro
Ne l’orecchio deporre il caro arcano
De le sorrise parolette brevi,
E meditar cingendo il fianco a lei
De l’espugnata forma indi i trofei.
Che se di nostre feste
Scorra su l’util plebe il beneficio
E civil carità prenda augumento;
Mercé nostra, il celeste,
Che bene e mal partì, saldo giudicio
Ha di bella pietade alleggiamento.
Noi, del nostro gioir, beata prole,
Rallegriam l’universo a par del sole.
(Voce dalle soffitte) Mancava il pan, mancava
L’opra sottile a reggere la vita;
E al freddo focolar sedea tremando,
E muta mi guardava,
Pallida mi guardava e sbigottita,
La madre: e un lungo giorno iva passando
Che perseguiami quel silenzio e ‘l guardo,
Quand’io lassa discesi a passo tardo.
Piovea per la brumale
Nebbia lividi raggi alta la luna
In su ‘l trivio lfangoso, e dispariva
Dietro le nubi: tale
Di giovinezza il lume in su la bruna
Mia vita mesto fra i dolor fuggiva.
E la man tesi: e vidimi in conspetto
Osceni ghigni; e in cor mi scese un detto
Immane. Ahi, ma più immane
Me, o superbi, premea la lunga fame
E il guardo e il viso de la madre antica.
Tornai: recai del pane:
Ma tacean del digiuno in me le brame,
Ma sollevare i gravi occhi a fatica
Sostenni; o madre, e nel tuo sen la fronte
Ascosi e del segreto animo l’onte.
Addio, d’un santo amore
Fantasie lacrimate, e voi compagne
Di questa infelicissima fanciulla!
A voi rida il candore
Del vel che la pia madre adorna e piagne,
E ‘l pensier ch’erra la studio d’una culla.
Io derelitta io scompagnata seguo
Pur la traccia de l’ombre e mi dileguo.
(Voce di sotterra) Taci, o fanciulla mesta;
Taci, o dolente madre, e l’affamato
Pargol raccheta ne la notte bruna.
Fiammeggia, ecco, la festa
Da’ vetri del palagio, ove il beato
De la libera patria ordin s’aduna,
E magistrati e militi tra’ suoni
E dotti ed usurier mesce e baroni.
De’ tuoi begli anni il fiore,
O fanciulla, intristì, chiedendo in vano
L’aer e l’amor ch’ogni animal desia;
Ma ride in quel bagliore
Di sete e d’òr, che con la bianca mano
La marchesa raccoglie e va giulìa
In danza. Or pianga e aspetti pur, che importa?,
La prostituzione a la tua porta.
Quel che ne la pupilla
Del figliuol tuo gelò supremo pianto
Che tu non rasciugasti, o madre trista,
Gemma s’è fatto e brilla
Tra ‘l nero crin de la banchiera. E intanto
Il leggiadro e soave economista
A lei che ride con la rosea bocca
Sentenze e baci dissertando scocca.
Gioite, trionfate,
O felici, o potenti, o larve! E quando
Il sol nuovo la plebe a l’opre caccia,
Uscite e dispiegate,
Pur la mal digerita orgia ruttando
Le vostre pompe a’ suoi digiuni in faccia;
E non sognate il dì ch’a l’auree porte
Batta la fame in compagnia di morte.

Eolia

Lina, brumaio torbido inclina,
Ne l’aer gelido monta la sera:
E a me ne l’anima fiorisce, o Lina,
La primavera.
In lume roseo, vedi, il nivale
Fedriade vertice sorge e sfavilla,
E di Castalia l’onda vocale
Mormora e brilla.
Delfo a’ suoi tripodi chiaro sonanti
Rivoca Apolline co’ nuovi soli,
Con i virginei peana e i canti
De’ rusignoli.
Da gl’iperborei lidi al pio suolo
Ei riede, a’ lauri dal pigro gelo:
Due cigni il traggono candidi a volo:
Sorride il cielo.
Al capo ha l’aurea benda di Giove;
Ma nel crin florido l’aura sospira
E con un tremito d’amor gli move
In man la lira.
D’intorno girano come in leggera
Danza le Cicladi patria del nume,
Da lungi plaudono Cipro e Citera
Con bianche spume.
E un lieve il séguita pe ‘l grande Egeo
Legno, a purpuree vele, canoro:
Armato règgelo per l’onde Alceo
Dal plettro d’oro.
Saffo dal candido petto anelante
A l’aura ambrosia che dal dio vola,
Dal riso morbido, da l’ondeggiante
Crin di viola,
In mezzo assidesi. Lina, quieti
I remi pendono: sali il naviglio.
Io, de gli eolii sacri poeti
Ultimo figlio,
Io meco traggoti per l’aure achive:
Odi le cetere tinnir: montiamo:
Fuggiam le occidue macchiate rive,
Dimentichiamo.

Idillio

Co ‘l raggio de l’april nuovo che inonda
Roseo la stanza tu sorridi ancora
Improvvisa al mio cuore, o Maria bionda;
E il cuor che t’obliò, dopo tant’ora
Di tumulti oziosi in te riposa,
O amor mio primo, o d’amor dolce aurora.
Ove sei ? senza nozze e sospirosa
Non passasti già tu: certo il natio
Borgo ti accoglie lieta madre e sposa;
Ché il fianco baldanzoso ed il restio
Seno a i freni del vel promettean troppa
Gioia d’amplessi al marital desio.
Forti figli pendean da la tua poppa
Certo, ed or baldi un tuo sguardo cercando
Al mal domo caval saltano in groppa.
Com’eri bella, o giovinetta, quando
Tra l’ondeggiar de’ lunghi solchi uscivi
Un tuo serto di fiori in man recando,
Alta e ridente, e sotto i cigli vivi
Di selvatico fuoco lampeggiante
Grande e profondo l’occhio azzurro aprivi!
Come ‘l ciano seren tra ‘l biondeggiante
Òr de le spiche, tra la chioma flava
Fioria quell’occhio azzurro; e a te d’avante
La grande estate, e intorno, fiammeggiava;
Sparso tra’ verdi rami il sol ridea
Del melogran, che rosso scintillava.
Al tuo passar, siccome a la sua dea,
Il bel pavon l’occhiuta coda apria
Guardando, e un rauco grido a te mettea.
Oh come fredda indi la vita mia,
Come oscura e incresciosa è trapassata!
Meglio era sposar te, bionda Maria!
Meglio ir tracciando per la sconsolata
Boscaglia al piano il bufolo disperso,
Che salta fra la macchia e sosta e guata,
Che sudar dietro al piccioletto verso!
Meglio oprando obliar, senza indagarlo,
Questo enorme mister de l’universo!
Or freddo, assiduo, del pensiero il tarlo
Mi trafora il cervello, ond’io dolente
Misere cose scrivo e tristi parlo.
Guasti i muscoli e il cuor da la rea mente,
Corrose l’ossa dal malor civile,
Mi divincolo in van rabbiosamente.
Oh lunghe al vento sussurranti file
De’ pioppi! oh a le bell’ombre in su ‘l sacrato
Ne i dí solenni rustico sedile,
Onde bruno si mira il piano arato
E verdi quindi i colli e quindi il mare
Sparso di vele, e il campo santo è a lato!
Oh dolce tra gli eguali il novellare
Su ‘l quieto meriggio, e a le rigenti
Sere accogliersi intorno al focolare!
Oh miglior gloria, a i figliuoletti intenti
Narrar le forti prove e le sudate
Cacce ed i perigliosi avvolgimenti
Ed a dito segnar le profondate
Oblique piaghe nel cignal supino,
Che proseguir con frottole rimate
I vigliacchi d’Italia e Trissottino.

Nostalgia

Là in Maremma ove fiorio
La mia triste primavera,
Là rivola il pensier mio
Con i tuoni e la bufera:
Là nel cielo librarmi
La mia patria a riguardar,
Poi co’l tuon vo’ sprofondarmi
Tra quei colli ed in quel mar.

A Scandiano

De la prona stagion ne i dí più tardi
Che le rose sfioriro e i laureti,
Quando cavalleria cinge i codardi
E al valor civiltà mette divieti,
A te, Scandian, faro gentil che ardi
Ne l’immensa al pensiero epica Teti,
O rocca de’ Fogliani e de’ Boiardi,
Terra di sapïenti e di poeti,
Io vengo: a tergo mi lasciai la grama
Che il mondo dice poesia, lasciai
I deliri a cui par che dietro agogni
L’età malata. Io sento che mi chiama
De’ secoli la voce, e risognai
La verità de i grandi antichi sogni.

Sabato Santo

Che giovinezza nova, che lucidi giorni di gioia
per la cerula effusa chiarità de l’aprile
cantano le campane con onde e volate di suoni
da la città su’ poggi lontanamente verdi!
Da i superati inferni, redimito il crin di vittoria,
candido, radïante, Cristo risorge al cielo:
svolgesi da l’inverno il novello anno, e al suo fiore
già in presagio la messe già la vendemmia ride.
Ospite nova al mondo, son oggi vent’anni, Maria,
tu t’affacciasti; e i primi tuoi vagiti coverse
doppio il suon de le sciolte campane sonanti a la gloria:
ora e tu ne la gloria de l’età bella stai,
stai com’uno di questi arboscelli schietti d’aprile
che a l’aura dolce danno il bianco roseo fiore.
Volgasi intorno al capo tuo giovin, deh, l’augure suono
de le campane anc’oggi di primavera e pasqua!
cacci il verno ed il freddo, cacci l’odio tristo e l’accidia,
cacci tutte le forme de la discorde vita!

Mezzogiorno alpino

Nel gran cerchio de l’alpi, su ‘I granito
Squallido e scialbo, su’ ghiacciai candenti,
Regna sereno intenso ed infinito
Nel suo grande silenzio il mezzodí.
Pini ed abeti senza aura di venti
Si drizzano nel sol che gli penètra,
Sola garrisce in picciol suon di cetra
L’acqua che tenue tra i sassi fluí.
Di notte
Pur ne l’ombra de’ tuoi lati velami
Gli umani tedi, o notte, ed i miei bassi
Crucci ravvolgi e sperdi: a te mi chiami,
E con te sola il mio cuor solo stassi.
Di quai d’ozio promesse adempi e sbrami
Gl’irrequïeti miei spiriti lassi?
E qual doni potenza a i pensier grami
Onde a l’eterno o al nulla errando vassi?
O diva notte, io non so già che sia
Questo pensoso e presago diletto
Ove l’ire e i dolor l’anima oblia:
Ma posa io trovo in te, qual pargoletto
Che singhiozza e s’addorme de la pia
Ava abbrunata su l’antico petto.

Ideale

Poi che un sereno vapor d’ambrosia
da la tua coppa diffuso avvolsemi,
o Ebe con passo di dea
trasvolata sorridendo via;
non più del tempo l’ombra o de l’algide
cure su ‘l capo mi sento; sentomi,
o Ebe, l’ellenica vita
tranquilla ne le vene fluire.
E i ruinati giù pe ‘l declivio
de l’età mesta giorni risursero,
o Ebe, nel tuo dolce lume
agognanti di rinnovellare;
e i novelli anni da la caligine
volenterosi la fronte adergono,
o Ebe, al tuo raggio che sale
tremolando e roseo li saluta.
A gli uni e gli altri tu ridi, nitida
stella, da l’alto. Tale ne i gotici
delùbri, tra candide e nere
cuspidi rapide salïenti
con doppia al cielo fila marmorea,
sta su l’estremo pinnacol placida
la dolce fanciulla di Jesse
tutta avvolta di faville d’oro.
Le ville e il verde piano d’argentei
fiumi rigato contempla aerea,
le messi ondeggianti ne’ campi,
le raggianti sopra
l’alpe nevi:
a lei d’intorno le nubi volano;
fuor de le nubi ride ella fulgida
a l’albe di maggio fiorenti,
a gli occasi di novembre mesti.

Alla vittoria

Scuotesti, vergin divina, l’auspice
ala su gli elmi chini de i pèltasti,
poggiasti il ginocchio a lo scudo,
aspettanti con l’aste protese?
o pur volasti davanti l’aquile,
davanti i flutti de’ marsi militi,
co ‘l miro fulgor respingendo
gli annitrenti cavalli de i Parti?
Raccolte or l’ali, sopra la galea
del vinto insisti fiera co ‘l poplite,
qual nome di vittorïoso
capitano su ‘l clipeo scrivendo?
È d’un arconte, che sovra i despoti
gloriò le sante leggi de’ liberi?
d’un consol, che il nome i confini
e il terror de l’impero distese?
Vorrei vederti su l’Alpi, splendida
fra le tempeste, bandir ne i secoli:
“O popoli, Italia qui giunse
vendicando il suo nome e il diritto.”
Ma Lidia intanto de i fiori ch’èduca
mesti l’ottobre da le macerie
romane t’elegge un pio serto,
e, ponendol soave al tuo piede,
– Che dunque – dice – pensasti, o vergine
cara, là sotto ne la terra umida
tanti anni? sentisti i cavalli
d’Alemagna su ‘l greco tuo capo? –
– Sentii – risponde la diva, e folgora –
però ch’io sono la gloria ellenica,
io sono la forza del Lazio
traversante nel bronzo pe’ tempi.
Passâr l’etadi simili a i dodici
avvoltoi tristi che vide Romolo
e sursi “O Italia” annunziando
“i sepolti son teco e i tuoi numi!”
Lieta del fato Brescia raccolsemi,
Brescia la forte, Brescia la ferrea,
Brescia leonessa d’Italia
beverata nel sangue nemico.

Gli amici della Valle Tiberina

Pur da queste serene erme pendici
D’altra vita al rumor ritornerò;
Ma nel memore petto, o nuovi amici,
Un desio dolce e mesto io porterò.
Tua verde valle ed il bel colle aprico
Sempre, o Bulcian, mi pungerà d’amor;
Bulciano, albergo di baroni antico,
Or di libere menti e d’alti cor.
E tu che al cielo, Cerbaiol, riguardi
Discendendo da i balzi d’Apennin,
Come gigante che svegliato tardi
S’affretta in caccia e interroga il mattin,
Tu ancor m’arridi. E, quando a i freschi venti
Di su l’aride carte anelerà
L’anima stanca, a voi, poggi fiorenti,
Balze austere e felici, a voi verrà.
Fiume famoso il breve piano inonda;
Ama la vite i colli; e, a rimirar
Dolce, fra verdi querce ecco la bionda
Spiga in alto a l’alpestre aura ondeggiar.
De i vecchi prepotenti in su gli spaldi
Pasce la vacca e mira lenta al pian;
E de le torri, ostello di ribaldi,
Crebbe l’utile casa al pio villan.
Dove il bronzo de’ frati in su la sera
Solo rompeva, od accrescea, l’orror,
Croscia il mulino, suona la gualchiera
E la canzone del vendemmiator.
Coraggio, amici. Se di vive fonti
Corse, tocco dal santo, il balzo alpin,
A voi saggi ed industri i patrii monti
Iscaturiscan di fumoso vin:
Del vin ch’edúca il forte suolo amico
Di ferro e zolfo con natia virtú:
Col quale io libo al padre Tebro antico,
Al Tebro tolto al fin di servitù.
Fiume d’Italia, a le tue sacre rive
Peregrin mossi con devoto amor
Il tuo nume adorando, e de le dive
Memorie l’ombra mi tremava in cor.
E pensai quanto i tuoi clivi Tarconte
Coronato pontefice salì,
E, fermo l’occhio nero a l’orizzonte,
Di leggi e d’armi il popol suo partì;
E quando la fatal prora d’Enea
Per tanto mar la foce tua cercò,
E l’aureo scudo de la madre dea
In su l’attonit’onde al sol raggiò;
E quando Furio e l’arator d’Arpino,
Imperador plebeo, tornava a te,
E coprivan l’altar capitolino
Spoglie di galli e di tedeschi re.
Fiume d’Italia, e tu l’origin traggi
Da questa Etruria ond’è ogni nostro onor;
Ma, dove nasci tra gli ombrosi faggi,
L’agnel ti salta e túrbati il pastor.
Meglio cosí, che tra marmoree sponde
Patir l’oltraggio de’ chercuti re,
E con l’orgoglio de le tumid’onde
L’orme lambire d’un crociato piè.
Volgon, fiume d’Italia, omai tropp’anni
Che la vergogna dura: or via, non piú.
Ecco, un grido io ti do—Morte a’ tiranni —;
Portalo, o fiume, a Ponte Milvio, tu.
Portal con suono ch’ogni suon confonda,
Portal con le procelle d’Apennin,
Portalo, o fiume; e un’eco ti risponda
Dal gran monte plebeo, da l’Aventin.
Tende l’orecchio Italia e il cenno aspetta:
Allor chi fia che la vorrà infrenar ?
Cento schiere di prodi a la vendetta
Da le tue valli verran teco al mar.
Risplendi, o fausto giorno. Ahi, se piú tardi,
Romito e taumaturgo esser vorrò:
Da la faccia de’ rei figli codardi
Ne le tombe de’ padri io fuggirò.
Con l’arti vo’ che cielo o inferno insegna
Da questi monti il foco isprigionar,
E fiamme in vece d’acqua a Roma indegna,
Al Campidoglio vile io vo’ mandar.
In una stazione in una mattina d’Autunno
Oh quei fanali come s’inseguono
accidiosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su ‘l fango!
5 Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d’autunno
come un grande fantasma n’è intorno.
Dove e a che move questa, che affrettasi
10 a’ carri fóschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?
Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia,
15 e al tempo incalzante i begli anni
dài, gl’istanti gioiti e i ricordi.
Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili,
com’ombre; una fioca lanterna
20 hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei
freni tentati rendono un lugubre
rintócco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.
25 E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su’ vetri la pioggia.
Già il mostro, conscio di sua metallica
30 anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe ‘l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.
Va l’empio mostro; con traino orribile
sbattendo l’ale gli amor miei portasi.
35 Ahi, la bianca faccia e ‘l bel velo
salutando scompar ne la tenebra.
O viso dolce di pallor roseo,
o stellanti occhi di pace, o candida
tra’ floridi ricci inchinata
40 pura fronte con atto soave!
Fremea la vita nel tepid’aere,
fremea l’estate quando mi arrisero;
e il giovine sole di giugno
si piacea di baciar luminoso
45 in tra i riflessi del crin castanei
la molle guancia: come un’aureola
più belli del sole i miei sogni
ricingean la persona gentile.
Sotto la pioggia, tra la caligine
50 torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com’ebro, e mi tócco,
non anch’io fossi dunque un fantasma.
Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l’anima!
55 io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.
Meglio a chi ‘l senso smarrì de l’essere,
meglio quest’ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
60 in un tedio che duri infinito.