Poesie Italiane: le 35 più belle, famose e classiche

poesie italiane

L’Italia vanta innumerevoli autori che sono entrati di diritto nella storia della letteratura a livello mondiale. Menti che hanno segnato la propria epoca, e lasciato i propri pensieri a disposizioni delle generazioni a venire. Autori che tutti noi ricordiamo e ammiriamo ancora oggi.

Con questa raccolta scopriamo insieme le più belle opere di autori che abbiamo tutti studiato sui banchi di scuola (come Giacomo Leopardi, GiosuĆØ Carducci, Gabriele d’Annunzio e Giovanni Pascoli), da riscoprire a distanza di anni con una nuova consapevolezza. Pensieri profondi ed illuminanti, che possono esserci d’ispirazione, poesie sull’amore, sulla vita, sull’essere umano, la consapevolezza e la felicitĆ .Ā Ecco le 35 poesie italiane più belle e famose:

Poesie Italiane

Maggiolata
(GiosuĆØ Carducci)

Maggio risveglia i nidi,
Maggio risveglia i cuori;
Porta le ortiche e i fiori,
I serpi e l’usignol.
Schiamazzano i fanciulli
In terra, e in ciel li augelli:
Le donne han ne i capelli
Rose, ne gli occhi il sol.
Tra colli prati e monti
Di fior tutto ĆØ una trama:
Canta germoglia ed ama
L’acqua la terra il ciel.
E a me germoglia in cuore
Di spine un bel boschetto;
Tre vipere ho nel petto
E un gufo entro il cervel.

A Silvia
(Giacomo Leopardi)

Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltĆ  splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all’opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
CosƬ menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D’in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch’io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
PerchĆØ non rendi poi
Quel che prometti allor? perchĆØ di tanto
Inganni i figli tuoi?
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Nè teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d’amore
Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell’etĆ  mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo ĆØ quel mondo? questi
I diletti, l’amor, l’opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell’umane genti?
All’apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.

A Zacinto
(Ugo Foscolo)

Né più mai toccherò le sacre sponde
Ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
Del greco mar da cui vergine nacque
Venere, e fea quelle isole feconde
Col suo primo sorriso, onde non tacque
Le tue limpide nubi e le tue fronde
L’inclito verso di colui che l’acque
Cantò fatali, ed il diverso esiglio
Per cui bello di fama e di sventura
Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
Tu non altro che il,canto avrai del figlio,
O materna mia terra; a noi prescrisse
Il fato illacrimata sepoltura.

Il sabato del villaggio
(Giacomo Leopardi)

La donzelletta vien dalla campagna,
In sul calar del sole,
Col suo fascio dell’erba; e reca in mano
Un mazzolin di rose e di viole,
Onde, siccome suole,
Ornare ella si appresta
Dimani, al dƬ di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
Su la scala a filar la vecchierella,
Incontro lĆ  dove si perde il giorno;
E novellando vien del suo buon tempo,
Quando ai dƬ della festa ella si ornava,
Ed ancor sana e snella
Solea danzar la sera intra di quei
Ch’ebbe compagni dell’etĆ  più bella.
GiĆ  tutta l’aria imbruna,
Torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
Giù da’ colli e da’ tetti,
Al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dĆ  segno
Della festa che viene;
Ed a quel suon diresti
Che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
Su la piazzuola in frotta,
E qua e lĆ  saltando,
Fanno un lieto romore:
E intanto riede alla sua parca mensa,
Fischiando, il zappatore,
E seco pensa al dƬ del suo riposo.
Poi quando intorno ĆØ spenta ogni altra face,
E tutto l’altro tace,
Odi il martel picchiare, odi la sega
Del legnaiuol, che veglia
Nella chiusa bottega alla lucerna,
E s’affretta, e s’adopra
Di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.
Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
Diman tristezza e noia
Recheran l’ore, ed al travaglio usato
Ciascuno in suo pensier farĆ  ritorno.
Garzoncello scherzoso,
Cotesta etĆ  fiorita
E’ come un giorno d’allegrezza pieno,
Giorno chiaro, sereno,
Che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
Stagion lieta ĆØ cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
Ch’anco tardi a venir non ti sia grave.

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
(Giacomo Leopardi)

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
ColĆ  dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
E’ la vita mortale.
La mattutina pioggia, allor che l’ale
Battendo esulta nella chiusa stanza
La gallinella, ed al balcon s’affaccia
L’abitator de’ campi, e il Sol che nasce
I suoi tremuli rai fra le cadenti
Stille saetta, alla capanna mia
Dolcemente picchiando, mi risveglia;
E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo
Degli augelli susurro, e l’aura fresca,
E le ridenti piagge benedico:
PoichƩ voi, cittadine infauste mura,
Vidi e conobbi assai, lĆ  dove segue
Odio al dolor compagno; e doloroso
Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna
BenchĆØ scarsa pietĆ  pur mi dimostra
Natura in questi lochi, un giorno oh quanto
Verso me più cortese! E tu pur volgi
Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando
Le sciagure e gli affanni, alla reina
FelicitĆ  servi, o natura. In cielo,
In terra amico agl’infelici alcuno
E rifugio non resta altro che il ferro.
Talor m’assido in solitaria parte,
Sovra un rialto, al margine d’un lago
Di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
Ed erba o foglia non si crolla al vento,
E non onda incresparsi, e non cicala
Strider, nĆØ batter penna augello in ramo,
NĆØ farfalla ronzar, nĆØ voce o moto
Da presso nĆØ da lunge odi nĆØ vedi.
Tien quelle rive altissima quiete;
Ond’io quasi me stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto; e giĆ  mi par che sciolte
Giaccian le membra mie, nĆØ spirto o senso
Più le commova, e lor quiete antica
Co’ silenzi del loco si confonda.

Pianto antico
(GiosuĆØ Carducci)

L’albero a cui tendevi
La pargoletta mano,
Il verde melograno
Da’ bei vermigli fior,
Nel muto orto solingo
RinverdĆ­ tutto or ora
E giugno lo ristora
Di luce e di calor.
Tu fior de la mia pianta
Percossa e inaridita,
Tu de l’inutil vita
Estremo unico fior,
Sei ne la terra fredda,
Sei ne la terra negra;
NĆ© il sol piĆŗ ti rallegra
NĆ© ti risveglia amor.

La pioggia nel pineto
(Gabriele D’Annunzio)

Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove sui pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitio che dura
e varia nell’aria secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
nƩ il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancora, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immensi
noi siam nello spirito
silvestre,
d’arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
ĆØ molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.
Ascolta, Ascolta. L’accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall’umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s’ode su tutta la fronda
crosciare
l’argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria
ĆØ muta: ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell’ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.
Piove su le tue ciglia nere
sƬ che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita ĆØ in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto ĆØ come pesca
intatta,
tra le palpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alveoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i melleoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione.

Ed ĆØ subito sera
(Salvatore Quasimodo)

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed ĆØ subito sera.

Soldati
(Giuseppe Ungaretti)

Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie.

La tartaruga
(Trilussa)

Mentre una notte se n’annava a spasso,
la vecchia tartaruga fece er passo più lungo
de la gamba e cascò giù
cò la casa vortata sottoinsù.
Un rospo je strillò: ā€œScema che sei!
Queste sò scappatelle che costeno la pelleā€¦ā€
ā€œlo sĆ²ā€ rispose lei ā€œma prima de morƬ,
vedo le stelleā€.

Il cinque maggio
(Alessandro Manzoni)

Ei fu. Siccome immobile,
Dato il mortal sospiro,
Stette la spoglia immemore
Orba di tanto spiro,
CosƬ percossa, attonita
La terra al nunzio sta,
Muta pensando all’ultima
Ora dell’uom fatale;
NĆØ sa quando una simile
Orma di piĆØ mortale
La sua cruenta polvere
A calpestar verrĆ .
Lui folgorante in solio
Vide il mio genio e tacque;
Quando, con vece assidua,
Cadde, risorse e giacque,
Di mille voci al sonito
Mista la sua non ha:
Vergin di servo encomio
E di codardo oltraggio,
Sorge or commosso al subito
Sparir di tanto raggio:
E scioglie all’urna un cantico
Che forse non morrĆ .
Dall’Alpi alle Piramidi,
Dal Manzanarre al Reno,
Di quel securo il fulmine
Tenea dietro al baleno;
Scoppiò da Scilla al Tanai,
Dall’uno all’altro mar.
Fu vera gloria? Ai posteri
L’ardua sentenza: nui
Chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
Del creator suo spirito
Più vasta orma stampar.
La procellosa e trepida
Gioia d’un gran disegno,
L’ansia d’un cor che indocile
Serve, pensando al regno;
E il giunge, e tiene un premio
Ch’era follia sperar;
Tutto ei provò: la gloria
Maggior dopo il periglio,
La fuga e la vittoria,
La reggia e il tristo esiglio:
Due volte nella polvere,
Due volte sull’altar.
Ei si nomò: due secoli,
L’un contro l’altro armato,
Sommessi a lui si volsero,
Come aspettando il fato;
Ei fe’ silenzio, ed arbitro
S’assise in mezzo a lor.
E sparve, e i dƬ nell’ozio
Chiuse in sƬ breve sponda,
Segno d’immensa invidia
E di pietĆ  profonda,
D’inestinguibil odio
E d’indomato amor.
Come sul capo al naufrago
L’onda s’avvolve e pesa,
L’onda su cui del misero,
Alta pur dianzi e tesa,
Scorrea la vista a scernere
Prode remote invan;
Tal su quell’alma il cumulo
Delle memorie scese!
Oh quante volte ai posteri
Narrar se stesso imprese,
E sull’eterne pagine
Cadde la stanca man!
Oh quante volte, al tacito
Morir d’un giorno inerte,
Chinati i rai fulminei,
Le braccia al sen conserte,
Stette, e dei dƬ che furono
L’assalse il sovvenir!
E ripensò le mobili
Tende, e i percossi valli,
E il lampo de’ manipoli,
E l’onda dei cavalli,
E il concitato imperio,
E il celere ubbidir.
Ahi! forse a tanto strazio
Cadde lo spirto anelo,
E disperò: ma valida
Venne una man dal cielo,
E in più spirabil aere
Pietosa il trasportò;
E l’avviò, pei floridi
Sentier della speranza,
Ai campi eterni, al premio
Che i desidƩri avanza,
Dov’è silenzio e tenebre
La gloria che passò.
Bella Immortal! benefica
Fede ai trionfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
Chè più superba altezza
Al disonor del Golgota
Giammai non si chinò.
Tu dalle stanche ceneri
Sperdi ogni ria parola:
Il Dio che atterra e suscita,
Che affanna e che consola,
Sulla deserta coltrice
Accanto a lui posò.

Il cielo ĆØ di tutti
(Gianni Rodari)

Qualcuno che la sa lunga
mi spieghi questo mistero:
il cielo ĆØ di tutti gli occhi
di ogni occhio ĆØ il cielo intero.
ƈ mio, quando lo guardo.
ƈ del vecchio, del bambino,
del re, dell’ortolano,
del poeta, dello spazzino.
Non c’è povero tanto povero
che non ne sia il padrone.
Il coniglio spaurito
ne ha quanto il leone.
Il cielo ĆØ di tutti gli occhi,
ed ogni occhio, se vuole,
si prende la luna intera,
le stelle comete, il sole.
Ogni occhio si prende ogni cosa
e non manca mai niente:
chi guarda il cielo per ultimo
non lo trova meno splendente.
Spiegatemi voi dunque,
in prosa od in versetti,
perché il cielo è uno solo
e la terra ĆØ tutta a pezzetti.

Sono nata il ventuno a Primavera
(Alda Merini)

Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
CosƬ Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse ĆØ la sua preghiera.

Vivo al peccato, a me morendo vivo
(Michelangelo Buonarroti)

Vivo al peccato, a me morendo vivo;
vita giĆ  mia non son, ma del peccato:
mie ben dal ciel, mie mal da me m’è dato,
dal mie sciolto voler, di ch’io son privo.
Serva mie libertĆ , mortal mie divo
a me s’è fatto. O infelice stato!
a che miseria, a che viver son nato!

Nel principio
(Primo Levi)

Fratelli umani a cui ĆØ lungo un anno,
Un secolo un venerando traguardo,
Affaticati per il vostro pane,
Stanchi, iracondi, illusi, malati, persi;
Udite, e vi sia consolazione e scherno:
Venti miliardi d’anni prima d’ora,
Splendido, librato nello spazio e nel tempo,
Era un globo di fiamma, solitario, eterno,
Nostro padre comune e nostro carnefice,
Ed esplose, ed ogni mutamento prese inizio.
Ancora, di quest’una catastrofe rovescia
L’eco tenue risuona dagli ultimi confini.
Da quell’unico spasimo tutto ĆØ nato:
Lo stesso abisso che ci avvolge e ci sfida,
Lo stesso tempo che ci partorisce e travolge,
Ogni cosa che ognuno ha pensato,
Gli occhi di ogni donna che abbiamo amato,
E mille e mille soli, e questa
Mano che scrive.

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
(Eugenio Montale)

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei ĆØ il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, nè più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtĆ  sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non giĆ  perchĆ© con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perchƩ sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.

Salvezza
(Guido Gozzano)

Vivere cinque ore?
Vivere cinque etĆ ?…
Benedetto il sopore
che m’addormenterà…
Ho goduto il risveglio
dell’anima leggiera:
meglio dormire, meglio
prima della mia sera.
Poi che non ha ritorno
il riso mattutino.
La bellezza del giorno
ĆØ tutta nel mattino.

Rimani
(Gabriele D’Annunzio)

Rimani! Riposati accanto a me.
Non te ne andare.
Io ti veglierò. Io ti proteggerò.
Ti pentirai di tutto fuorchĆ© d’essere venuto a me, liberamente, fieramente.
Ti amo. Non ho nessun pensiero che non sia tuo;
non ho nel sangue nessun desiderio che non sia per te.
Lo sai. Non vedo nella mia vita altro compagno, non vedo altra gioia
Rimani.
Riposati. Non temere di nulla.
Dormi stanotte sul mio cuore…

FelicitĆ 
(Totò)

FelicitĆ !
Vurria sapĆØ ched’è chesta parola,
vurria sapè che vvò significà.
SarrĆ  gnuranza ā€˜a mia, mancanza ā€˜e scola,
ma chi ll’ha ā€˜ntiso maje annummenĆ .

ā€˜A livella
(Totò)

Ogn’anno, il due novembre, c’é l’usanza
Per i defunti andare al Cimitero
Ognuno ll’adda fĆ  chesta crianza
Ognuno adda tenƩ chistu penziero
Ogn’anno, puntualmente, in questo giorno
Di questa triste e mesta ricorrenza
Anch’io ci vado, e con dei fiori adorno
Il loculo marmoreo ā€˜e zi’ Vicenza
St’anno m’é capitato ā€˜navventura
Dopo di aver compiuto il triste omaggio
Madonna, si ce penzo, e che paura!
Ma po’ facette un’anema e curaggio
ā€˜O fatto ĆØ chisto, statemi a sentire
S’avvicinava ll’ora d’à chiusura
Io, tomo tomo, stavo per uscire
Buttando un occhio a qualche sepoltura
ā€œQui dorme in pace il nobile marchese
Signore di Rovigo e di Belluno
Ardimentoso eroe di mille imprese
Morto l’11 maggio del’31ā€
ā€˜O stemma cu ā€˜a curona ā€˜ncoppa a tutto
Sotto ā€˜na croce fatta ā€˜e lampadine
Tre mazze ā€˜e rose cu ā€˜na lista ā€˜e lutto
Cannele, cannelotte e sei lumine
Proprio azzeccata ā€˜a tomba ā€˜e stu signore
Nce stava ā€˜n ā€˜ata tomba piccerella
Abbandunata, senza manco un fiore
Pe’ segno, sulamente ā€˜na crucella
E ncoppa ā€˜a croce appena se liggeva:
ā€œEsposito Gennaro – netturbinoā€
Guardannola, che ppena me faceva
Stu muorto senza manco nu lumino
Questa ĆØ la vita! ā€˜ncapo a me penzavo
Chi ha avuto tanto e chi nun ave niente
Stu povero maronna s’aspettava
Ca pur all’atu munno era pezzente?
Mentre fantasticavo stu penziero
S’era ggiĆ  fatta quase mezanotte
E i’rimanette ā€˜nchiuso priggiuniero
Muorto ā€˜e paura… nnanze ā€˜e cannelotte
Tutto a ā€˜nu tratto, che veco ā€˜a luntano?
Ddoje ombre avvicenarse ā€˜a parte mia
Penzaje: stu fatto a me mme pare strano
Stongo scetato… dormo, o ĆØ fantasia?
Ate che fantasia; era ā€˜o Marchese
C’o’ tubbo, ā€˜a caramella e c’o’ pastrano
Chill’ato apriesso a isso un brutto arnese
Tutto fetente e cu ā€˜nascopa mmano
E chillo certamente ĆØ don Gennaro
ā€˜Omuorto puveriello’ o scupatore
ā€˜Int ā€˜a stu fatto i’ nun ce veco chiaro
So’ muorte e se ritirano a chest’ora?
Putevano sta’ ā€˜a me quase ā€˜nu palmo
Quanno ā€˜o Marchese se fermaje ā€˜e botto
S’avota e tomo, tomo, calmo, calmo
Dicette a don Gennaro: ā€œGiovanotto!ā€
Da Voi vorrei saper, vile carogna
Con quale ardire e come avete osato
Di farvi seppellir, per mia vergogna
Accanto a me che sono blasonato!
La casta ĆØ casta e va, si, rispettata,
Ma Voi perdeste il senso e la misura
La Vostra salma andava, si, inumata
Ma seppellita nella spazzatura
Ancora oltre sopportar non posso
La Vostra vicinanza puzzolente
Fa d’uopo, quindi, che cerchiate un fosso
Tra i vostri pari, tra la vostra gente
ā€œSignor Marchese, nun ĆØ colpa mia
I’nun v’avesse fatto chistu tuorto
Mia moglie ĆØ stata a ffa’ sta fesseria
I’ che putevo fa’ si ero muorto?
Si fosse vivo ve farrei cuntento
Pigliasse ā€˜a casciulella cu ā€˜e qquatt’osse
E proprio mo, obbj’…’nd’a stu mumento
Mme ne trasesse dinto a n’ata fossaā€
ā€œE cosa aspetti, oh turpe malcreato
Che l’ira mia raggiunga l’eccedenza?
Se io non fossi stato un titolato
Avrei giĆ  dato piglio alla violenza!ā€
ā€œFamme vedĆ©.-piglia sta violenza
ā€˜A veritĆ , MarchĆ©, mme so’ scucciato
ā€˜E te senti; e si perdo ā€˜a pacienza
Mme scordo ca so’ muorto e so mazzate!
Ma chi te cride d’essere, nu ddio?
CcĆ  dinto, ā€˜o vvuo capi, ca simmo eguale?
Muorto si’tu e muorto so’ pur’io;
Ognuno comme a ā€˜na’ato Ć© tale e qualeā€
ā€œLurido porco! Come ti permetti
Paragonarti a me ch’ebbi natali
Illustri, nobilissimi e perfetti
Da fare invidia a Principi Reali?ā€
ā€œTu qua’ Natale, Pasca e Ppifania
Tā€o vvuo’ mettere ā€˜ncapo’ int’a cervella
Che staje malato ancora ĆØ fantasia?
ā€˜A morte ā€˜o ssaje chedā€e? ĆØ una livella.
ā€˜Nu rre, ā€˜nu maggistrato, ā€˜nu grand’ommo
Trasenno stu canciello ha fatt’o punto
C’ha perzo tutto, ā€˜a vita e pure ā€˜o nomme
Tu nu t’hĆØ fatto ancora chistu cunto?
Perciò, stamme a ssenti, nun faā€o restivo
Suppuorteme vicino-che te ā€˜mporta?
Sti ppagliacciate ā€˜e ffanno sulo ā€˜e vive
Nuje simmo serie, appartenimmo Ć  morte!ā€

Il Cantico delle Creature
(Francesco d’Assisi)

Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
Ad te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ĆØne dignu te mentovare.
Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,
spetialmente messor lo frate sole,
lo qual ĆØ iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu ĆØ bellu e radiante cum grande splendore:
de te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le tue creature dĆ i sustentamento.
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua,
la quale ĆØ multo utile et humile et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello ĆØ bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.
Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore
et sostengo infirmitate et tribulatione.
Beati quelli ke ā€˜l sosterrano in pace,
ka da te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:
guai aĀ·cquelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarĆ  ne le tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ā€˜l farrĆ  male.
Laudate e benedicete mi’ Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate.

VerrĆ  la morte e avrĆ  i tuoi occhi
(Cesare Pavese)

VerrĆ  la morte e avrĆ  i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
CosƬ li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
VerrĆ  la morte e avrĆ  i tuoi occhi.
SarĆ  come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

FelicitĆ  raggiunta
(Eugenio Montale)

FelicitĆ  raggiunta, si cammina
per te su fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s’incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t’ama.
Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le schiari, il tuo mattino
ĆØ dolce e turbatore come i nidi delle cimase
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case.

Trionfo di Bacco e Arianna
(Lorenzo de’ Medici)

Quant’è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Quest’è Bacco e ArĆÆanna,
belli, e l’un dell’altro ardenti:
perchĆ© ā€˜l tempo fugge e inganna,
sempre insieme stan contenti.
Queste ninfe ed altre genti
sono allegre tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Questi lieti satiretti,
delle ninfe innamorati,
per caverne e per boschetti
han lor posto cento agguati;
or da Bacco riscaldati
ballon, salton tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia
di doman non c’è certezza.
Queste ninfe anche hanno caro
da lor essere ingannate:
non può fare a Amor riparo
se non gente rozze e ingrate:
ora, insieme mescolate,
suonon, canton tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Questa soma, che vien drieto
sopra l’asino, ĆØ Sileno:
così vecchio, è ebbro e lieto,
giĆ  di carne e d’anni pieno;
se non può star ritto, almeno
ride e gode tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Mida vien drieto a costoro:
ciò che tocca oro diventa.
E che giova aver tesoro,
s’altri poi non si contenta?
Che dolcezza vuoi che senta
chi ha sete tuttavia?
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Ciascun apra ben gli orecchi,
di doman nessun si paschi;
oggi siam, giovani e vecchi,
lieti ognun, femmine e maschi;
ogni tristo pensier caschi:
facciam festa tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Donne e giovinetti amanti,
viva Bacco e viva Amore!
Ciascun suoni, balli e canti!
Arda di dolcezza il core!
Non fatica, non dolore!
Ciò c’ha a esser, convien sia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Cancellata
(Alfonsina Storni)

Il giorno in cui morirò, la notizia
seguirĆ  le solite procedure,
da un ufficio all’altro con precisione
dentro ogni registro verrò cercata.
E lĆ  molto lontano, in un paesino
che sta dormendo al sole su in montagna,
sopra il mio nome, in un vecchio registro,
mano che ignoro traccerĆ  una riga.

Tanto gentile e tanto onesta pare
(Dante Alighieri)

Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltĆ  vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi sƬ piacente a chi la mira,
che dĆ  per li occhi una dolcezza al core,
che ā€˜ntender no la può chi no la prova:
e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: sospira.

Alla luna
(Giacomo Leopardi)

O graziosa luna, io mi rammento
che, or volge l’anno, sovra questo colle
io venia pien d’angoscia a rimirarti:
e tu pendevi allor su quella selva
siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
il tuo volto apparia, chƩ travagliosa
era mia vita: ed è, né cangia stile,
o mia diletta luna. E pur mi giova
la ricordanza, e il noverar l’etate
del mio dolore. Oh come grato occorre
nel tempo giovanil, quando ancor lungo
la speme e breve ha la memoria il corso,
il rimembrar delle passate cose,
ancor che triste, e che l’affanno duri!

La FelicitĆ 
(Giovanni Pascoli)

Quando, all’alba, dall’ombra s’affaccia,
discende le lucide scale
e svanisce; ecco dietro la traccia
d’un fievole sibilo d’ale,
io la inseguo per monti, per piani,
nel mare, nel cielo: giĆ  in cuore
io la vedo, giĆ  tendo le mani,
giĆ  tengo la gloria e l’amore.
Ahi! ma solo al tramonto m’appare,
su l’orlo dell’ombra lontano,
e mi sembra in silenzio accennare
lontano, lontano, lontano.
La via fatta, il trascorso dolore,
m’accenna col tacito dito:
improvvisa, con lieve stridore,
discende al silenzio infinito.

O falce di luna calante
(Gabriele d’Annunzio)

O falce di luna calante
che brilli su l’acque deserte,
o falce d’argento, qual mĆØsse di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!
Aneliti brevi di foglie,
sospiri di fiori dal bosco
esalano al mare: non canto non grido
non suono pe ā€˜l vasto silenzio va.
Oppresso d’amor, di piacere,
il popol de’ vivi s’addorme…
O falce calante, qual mĆØsse di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!

Supplica a Mia Madre
(Pier Paolo Pasolini)

ƈ difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che ĆØ stato sempre, prima d’ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
ĆØ dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo ĆØ dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.
PerchĆ© l’anima ĆØ in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora ĆØ finita.
Sopravviviamo: ed ĆØ la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

Canto alla luna
(Alda Merini)

La luna geme sui fondali del mare,
o Dio morta paura
di queste siepi terrene,
o quanti sguardi attoniti
che salgono dal buio
a ghermirti nell’anima ferita.
La luna grava su tutto il nostro io
e anche quando sei prossima alla fine
senti odore di luna
sempre sui cespugli martoriati
dai mantici
dalle parodie del destino.
Io sono nata zingara, non ho posto fisso nel mondo,
ma forse al chiaro di luna
mi fermerò il tuo momento
quanto basti per darti
un unico bacio d’amore.

Dominare
(Filippo Tommaso Marinetti)

Dominare
straripare d’azzurro e di silenzio 2 minuti
strada scendere
scendere
scendere
scendere
scendere
salire
scendere scendere
pianerottolo d’un torrente
scendere ancora
ancora fuga dalle colline e vallate
subitaneo ottenebrarsi dei contrafforti dei Rodopi
a picco sotto i piedi dell’aviatore tra 2
chiarori di fiumi.

L’infinito
(Giacomo Leopardi)

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di lĆ  da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. CosƬ tra questa
ImmensitĆ  s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.

Er grillo zoppo
(Trilussa)

– Ormai me reggo su ā€˜na cianca sola.
– diceva un Grillo – Quella che me manca
m’arimase attaccata a la cappiola.
Quanno m’accorsi d’esse priggioniero
col laccio ar piede, in mano a un regazzino,
nun c’ebbi che un pensiero:
de rivolĆ  in giardino.
Er dolore fu granne… ma la stilla
de sangue che sortƬ da la ferita
brillò ner sole come una favilla.
E forse un giorno Iddio benedirĆ 
ogni goccia de sangue ch’è servita
pe’ scrive la parola LibbertĆ !

San Martino
(GiosuĆØ Carducci)

La nebbia a gl’irti colli
Piovigginando sale,
E sotto il maestrale
Urla e biancheggia il mar;
Ma per le vie del borgo
Dal ribollir de’ tini
Va l’aspro odor de i vini
L’anime a rallegrar.
Gira su’ ceppi accesi
Lo spiedo scoppiettando:
Sta il cacciator fischiando
Su l’uscio a rimirar
Tra le rossastre nubi
Stormi d’uccelli neri,
Com’esuli pensieri,
Nel vespero migrar.

Mare
(Giovanni Pascoli)

M’affaccio alla finestra, e vedo il mare:
vanno le stelle, tremolano l’onde.
Vedo stelle passare, onde passare:
un guizzo chiama, un palpito risponde.
Ecco sospira l’acqua, alita il vento:
sul mare ĆØ apparso un bel ponte d’argento.
Ponte gettato sui laghi sereni,
per chi dunque sei fatto e dove meni?

Io sono cosƬ
(Luigi Pirandello)

Quando tu riesci a non aver più un ideale,
perchƩ osservando la vita sembra un enorme pupazzata,
senza nesso, senza spiegazione mai;
quando tu non hai più un sentimento,
perchƩ sei riuscito a non stimare,
a non curare più gli uomini e le cose,
e ti manca perciò l’abitudine, che non trovi,
e l’occupazione, che sdegni
– quando tu, in una parola, vivrai senza la vita,
penserai senza un pensiero,
sentirai senza cuore –
allora tu non saprai che fare:
sarai un viandante senza casa,
un uccello senza nido.

Filastrocca di Carnevale
(Gianni Rodari)

Carnevale in filastrocca,
con la maschera sulla bocca,
con la maschera sugli occhi,
con le toppe sui ginocchi:
sono le toppe d’Arlecchino,
vestito di carta, poverino.
Pulcinella ĆØ grosso e bianco,
e Pierrot fa il saltimbanco.
Pantalon dei Bisognosi –
Colombina, – dice, – mi sposi?
Gianduia lecca un cioccolatino
e non ne dĆ  niente a Meneghino,
mentre Gioppino col suo randello
mena botte a Stenterello.
Per fortuna il dottor Balanzone
gli fa una bella medicazione,
poi lo consola: – ƈ carnevale,
e ogni scherzo per oggi vale.

La quiete dopo la tempesta
(Giacomo Leopardi)

Passata ĆØ la tempesta:
Odo augelli far festa, e la gallina,
Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
Rompe lĆ  da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
Risorge il romorio
Torna il lavoro usato.
L’artigiano a mirar l’umido cielo,
Con l’opra in man, cantando,
Fassi in su l’uscio; a prova
Vien fuor la femminetta a còr dell’acqua
Della novella piova;
E l’erbaiuol rinnova
Di sentiero in sentiero
Il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
Apre terrazzi e logge la famiglia:
E, dalla via corrente, odi lontano
Tintinnio di sonagli; il carro stride
Del passegger che il suo cammin ripiglia.
Si rallegra ogni core.
SƬ dolce, sƬ gradita
Quand’è, com’or, la vita?
Quando con tanto amore
L’uomo a’ suoi studi intende?
O torna all’opre? o cosa nova imprende?
Quando de’ mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d’affanno;
Gioia vana, ch’è frutto
Del passato timore, onde si scosse
E paventò la morte
Chi la vita abborria;
Onde in lungo tormento,
Fredde, tacite, smorte,
SudĆ r le genti e palpitĆ r, vedendo
Mossi alle nostre offese
Folgori, nembi e vento.
O natura cortese,
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono
Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
E’ diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d’affanno, ĆØ gran guadagno. Umana
Prole cara agli eterni! assai felice
Se respirar ti lice
D’alcun dolor: beata
Se te d’ogni dolor morte risana.

La ginestra
(Giacomo Leopardi)

Qui su l’arida schiena
del formidabil monte
sterminator Vesevo,
la qual null’altro allegra arbor nĆØ fiore,
tuoi cespi solitari intorno spargi,
odorata ginestra,
contenta dei deserti. Anco ti vidi
de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
che cingon la cittade
la qual fu donna de’ mortali un tempo,
e del perduto impero
par che col grave e taciturno aspetto
faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
lochi e dal mondo abbandonati amante,
e d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
di ceneri infeconde, e ricoperti
dell’impietrata lava,
che sotto i passi al peregrin risona;
dove s’annida e si contorce al sole
la serpe, e dove al noto
cavernoso covil torna il coniglio;
fur liete ville e colti,
e biondeggiĆ r di spiche, e risonaro
di muggito d’armenti;
fur giardini e palagi,
agli ozi de’ potenti
gradito ospizio; e fur cittĆ  famose
che coi torrenti suoi l’altero monte
dall’ignea bocca fulminando oppresse
con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
una ruina involve,
dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
i danni altrui commiserando, al cielo
di dolcissimo odor mandi un profumo,
che il deserto consola. A queste piagge
venga colui che d’esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
ĆØ il gener nostro in cura
all’amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrĆ  dell’uman seme,
cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
le magnifiche sorti e progressive.
Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco,
che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e volti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e proceder il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
di cui lor sorte rea padre ti fece,
vanno adulando, ancora
ch’a ludibrio talora
t’abbian fra se. Non io
con tal vergogna scenderò sotterra;
ma il disprezzo piuttosto che si serra
di te nel petto mio,
mostrato avrò quanto si possa aperto:
ben ch’io sappia che obblio
preme chi troppo all’etĆ  propria increbbe.
Di questo mal, che teco
mi fia comune, assai finor mi rido.
LibertĆ  vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di novo il pensiero,
sol per cui risorgemmo
della barbarie in parte, e per cui solo
si cresce in civiltĆ , che sola in meglio
guida i pubblici fati.
CosƬ ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci diĆØ. Per questo il tergo
vigliaccamente rivolgesti al lume
che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
vil chi lui segue, e solo
magnanimo colui
che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
che sia dell’alma generoso ed alto,
non chiama se nĆØ stima
ricco d’or nĆØ gagliardo,
e di splendida vita o di valente
persona infra la gente
non fa risibil mostra;
ma se di forza e di tesor mendico
lascia parer senza vergogna, e noma
parlando, apertamente, e di sue cose
fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
non credo io giĆ , ma stolto,
quel che nato a perir, nutrito in pene,
dice, a goder son fatto,
e di fetido orgoglio
empie le carte, eccelsi fati e nove
felicitĆ , quali il ciel tutto ignora,
non pur quest’orbe, promettendo in terra
a popoli che un’onda
di mar commosso, un fiato
d’aura maligna, un sotterraneo crollo
distrugge sƬ, che avanza
a gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura ĆØ quella
che a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra se nel soffrir, nĆØ gli odii e l’ire
fraterne, ancor più gravi
d’ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor, ma dĆ  la colpa a quella
che veramente ĆØ rea, che de’ mortali
madre ĆØ di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccome ĆØ il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra se confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune. Ed alle offese
dell’uomo armar la destra, e laccio porre
al vicino ed inciampo,
stolto crede cosƬ, qual fora in campo
cinto d’oste contraria, in sul più vivo
incalzar degli assalti,
gl’inimici obbliando, acerbe gare
imprender con gli amici,
e sparger fuga e fulminar col brando
infra i propri guerrieri.
CosƬ fatti pensieri
quando fien, come fur, palesi al volgo,
e quell’orror che primo
contra l’empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper, l’onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade, altra radice
avranno allor che non superbe fole,
ove fondata probitĆ  del volgo
cosƬ star suole in piede
quale star può quel ch’ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
che, desolate, a bruno
veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
seggo la notte; e sulla mesta landa
in purissimo azzurro
veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
cui di lontan fa specchio
il mare, e tutto di scintille in giro
per lo vòto Seren brillar il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
ch’a lor sembrano un punto,
e sono immense, in guisa
che un punto a petto a lor son terra e mare
veracemente; a cui
l’uomo non pur, ma questo
globo ove l’uomo ĆØ nulla,
sconosciuto ĆØ del tutto; e quando miro
quegli ancor più senz’alcun fin remoti
nodi quasi di stelle,
ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
e non la terra sol, ma tutte in uno,
del numero infinite e della mole,
con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
o sono ignote, o cosƬ paion come
essi alla terra, un punto
di luce nebulosa; al pensier mio
che sembri allora, o prole
dell’uomo? E rimembrando
il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
che te signora e fine
credi tu data al Tutto, e quante volte
favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
per tua cagion, dell’universe cose
scender gli autori, e conversar sovente
co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi
sogni rinnovellando, ai saggi insulta
fin la presente etĆ , che in conoscenza
ed in civil costume
sembra tutte avanzar; qual moto allora,
mortal prole infelice, o qual pensiero
verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietĆ  prevale.
Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
cui lĆ  nel tardo autunno
maturitĆ  senz’altra forza atterra,
d’un popol di formiche i dolci alberghi,
cavati in molle gleba
con gran lavoro, e l’opre
e le ricchezze che adunate a prova
con lungo affaticar l’assidua gente
avea provvidamente al tempo estivo,
schiaccia, diserta e copre
in un punto; cosƬ d’alto piombando,
dall’utero tonante
scagliata al ciel, profondo
di ceneri e di pomici e di sassi
notte e ruina, infusa
di bollenti ruscelli,
o pel montano fianco
furiosa tra l’erba
di liquefatti massi
e di metalli e d’infocata arena
scendendo immensa piena,
le cittadi che il mar lĆ  su l’estremo
lido aspergea, confuse
e infranse e ricoperse
in pochi istanti: onde su quelle or pasce
la capra, e cittĆ  nove
sorgon dall’altra banda, a cui sgabello
son le sepolte, e le prostrate mura
l’arduo monte al suo piĆØ quasi calpesta.
Non ha natura al seme
dell’uom più stima o cura
che alla formica: e se più rara in quello
che nell’altra ĆØ la strage,
non avvien ciò d’altronde
fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
anni varcĆ r poi che spariro, oppressi
dall’ignea forza, i popolati seggi,
e il villanello intento
ai vigneti, che a stento in questi campi
nutre la morta zolla e incenerita,
ancor leva lo sguardo
sospettoso alla vetta
fatal, che nulla mai fatta più mite
ancor siede tremenda, ancor minaccia
a lui strage ed ai figli ed agli averi
lor poverelli. E spesso
il meschino in sul tetto
dell’ostel villereccio, alla vagante
aura giacendo tutta notte insonne,
e balzando più volte, esplora il corso
del temuto bollor, che si riversa
dall’inesausto grembo
sull’arenoso dorso, a cui riluce
di Capri la marina
e di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
del domestico pozzo ode mai l’acqua
fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
desta la moglie in fretta, e via, con quanto
di lor cose rapir posson, fuggendo,
vede lontano l’usato
suo nido, e il picciol campo,
che gli fu dalla fame unico schermo,
preda al flutto rovente
che crepitando giunge, e inesorato
durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
dopo l’antica obblivion l’estinta
Pompei, come sepolto
scheletro, cui di terra
avarizia o pietĆ  rende all’aperto;
e dal deserto foro
diritto infra le file
dei mozzi colonnati il peregrino
lunge contempla il bipartito giogo
e la cresta fumante,
ch’alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell’orror della secreta notte
per li vacui teatri, per li templi
deformi e per le rotte
case, ove i parti il pipistrello asconde,
come sinistra face
che per voti palagi atra s’aggiri,
corre il baglior della funerea lava,
che di lontan per l’ombre
rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
CosƬ, dell’uomo ignara e dell’etadi
ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
dopo gli avi i nepoti,
sta natura ognor verde, anzi procede
per sƬ lungo cammino,
che sembra star. Caggiono i regni intanto,
passan genti e linguaggi: ella nol vede:
e l’uom d’eternitĆ  s’arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
giĆ  noto, stenderĆ  l’avaro lembo
su tue molli foreste. E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver le stelle,
nĆØ sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma più saggia, ma tanto
meno inferma dell’uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali.

Sulla luna
(Gianni Rodari)

Sulla luna, per piacere,
non mandate un generale:
ne farebbe una caserma
con la tromba e il caporale.
Non mandateci un banchiere
sul satellite d’argento,
o lo mette in cassaforte
per mostrarlo a pagamento.
Non mandateci un ministro
col suo seguito di uscieri:
empirebbe di scartoffie
i lunatici crateri.
Ha da essere un poeta
sulla Luna ad allunare:
con la testa nella luna
lui da un pezzo ci sa stare…
A sognar i più bei sogni
ĆØ da un pezzo abituato:
sa sperare l’impossibile
anche quando ĆØ disperato.
Or che i sogni e le speranze
si fan veri come fiori,
sulla luna e sulla terra
fate largo ai sognatori!